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INTERVENTO DEL PRESIDENTE SFORZA FOGLIANI A SAN MACUTO (Parlamento) IN APERTURA DELLE CELEBRAZIONI PER IL 140° ANNIVERSARIO DELLA COSTITUZIONE DELL’ASSOPOPOLARI

Diamo oggi il via – in questa sala del Senato densa di ricordi e nel giorno anniversario di una storica scelta degli italiani per la libertà e contro ogni totalitarismo – alle programmate manifestazioni per la celebrazione del 140° anniversario della nascita dell’Associazione fra le Banche popolari.

“Stringere i diversi sodalizi di credito popolare in un consorzio, il quale miri al loro reciproco perfezionamento e vegli alla tutela dei comuni interessi”. Questa la priorità (ben sottolineata nel volume “140 anni di Associazione – Il Credito Popolare al servizio del Paese" che cogliamo oggi l’occasione per presentare) che Luigi Luzzatti, insieme a sette presidenti di Banche popolari che già ad aprile avevano costituito un Comitato promotore,  fissò nella circolare all’origine, il 10 agosto 1876, della prima associazione di imprese dello Stato unitario, da lui – anima e infaticabile costruttore del Credito Popolare – espressamente voluta.  Ventidue furono le Banche popolari fondatrici. Erano nate a partire dal 1864 ed avevano subito avuto una rapida diffusione, arrivando a superare il numero di cento nel 1876 e di duecento solo dieci anni dopo, fino ad arrivare – diffusesi in tutto il Paese – ad essere quasi 700 all’inizio del Novecento. Le Popolari – banche cooperative rivolte alle necessità del commercio e dell’industria minore e locale , ma anche delle famiglie, e guidate dai principii di cooperazione e sussidiarietà – diventarono, in pochi anni, banche di media entità e, in alcuni casi, di ragguardevole entità. Il movimento cooperativo italiano, strutturato sul sistema già operativo in Germania e Francia, si trovò a dover supplire all’assenza di altre istituzioni e di un vero e proprio sistema bancario. Le accresciute e diversificate dimensioni qualitative e quantitative fecero subito sentire l'esigenza di un organismo di aggregazione e confronto. Da cui l’Associazione, che consacrò al primo articolo del proprio statuto "il carattere precipuo della mutualità" che tutte accomunava e che ancor oggi accomuna tutte le Popolari.

Il contesto economico odierno è certamente differente rispetto a quello della seconda metà dell'Ottocento, quando nacquero le prime Banche popolari e, con esse, l’Associazione, ma – a ben guardare – proprio in riferimento alla non ancora superata crisi economica, tali diversità appaiono meno profonde di quanto possano apparire. Il livello di benessere acquisito a partire dal secondo dopoguerra del secolo scorso è notevolmente superiore a quello dell’Italia nella quale nacquero le prime Popolari, ma è anche vero che le forze più attive del tessuto economico, le potenzialità di crescita, le speranze per un futuro migliore risiedono ancora oggi, e ancor più nella situazione nella quale ci troviamo, nella piccola e media imprenditoria, nelle comunità locali dei centri produttivi ed agricoli, negli eredi di coloro che furono l'anima fondatrice del Credito Popolare. Dopo il periodo di espansione della grande industria, gran parte del merito dello sviluppo economico è andato alle stesse categorie produttive che avevano sostenuto, oltre cento anni fa, il primo momento di significativa evoluzione del Paese. E centoquarant’anni di storia d’Italia (durante i quali la nostra categoria ha dato all’Italia anche un Governatore come Bonaldo Stringher) sono anche centoquarant’anni della nostra Associazione (oggi, Associazione di banche popolari e del territorio), forte – al 31 dicembre 2015 – di 63 banche associate, 52 società finanziarie e 152 banche corrispondenti, per un complesso – del nostro sistema – di un milione e trecentomila soci, sedici milioni e quattrocentomila clienti, ottantamilasettecento dipendenti, quattrocentocinquanta miliardi di attivo, per una quota di mercato di più del venticinque per cento sia nella raccolta che negli impieghi.

L’Italia attraversa oggi un periodo tribolato, nel quale il modello cooperativo sembra essere messo in discussione, nella forma e in quello spirito che caratterizza le banche di territorio al di là della dimensione che esse hanno. Noi siamo decisi a difenderlo, i numeri ci danno ragione, abbiamo una patrimonializzazione di categoria che è il doppio di quella richiesta. Difendiamo, in particolare, il regime di concorrenza nel settore, che solo le banche territoriali assicurano, difendiamo il solido legame con l’economia reale che esse rappresentano.

La generale constatazione che la Borsa punisce le banche che fanno credito deve oggi far riflettere il mondo dell’impresa, ma non solo. Le strutture del credito vanno affrancate da ogni conduzione parapubblica che le leghi ad un passato irrimediabilmente superato. I risparmiatori e gli investitori non possono essere chiamati a rispondere di responsabilità che – anche nella allocazione del risparmio – fanno capo, in ultima analisi (e da sempre), allo stato, che infatti ne rispondeva. Bisogna scongiurare che il Fondo per gli aumenti di capitale e le sofferenze sia visto (e venga interpretato) come un mezzo di salvataggio che – come già avvenuto – metta a carico delle banche corrette il soccorso a banche concorrenti e vigilate. Nelle prossime ore ne conosceremo i dettagli, si potrà darne un più compiuto giudizio.

E’ urgente il ritorno allo stato di diritto, anzitutto attraverso una giustizia civile efficiente, che ripristini il valore dei contratti di diritto privato, anche accorciando i tempi delle procedure concorsuali. Bisogna chiedersi se la politica monetaria sia davvero in grado di farci superare il momento critico che attraversa l’Europa. Va considerato che la politica dei tassi di interesse negativi o al minimo, è all’origine della crisi del 2007, non induce “ad affamare la Bestia” (come si dice negli Stati Uniti) della spesa pubblica ed a ridurre il debito, che – come ci insegna l’esperienza della Destra storica – imbriglia l’iniziativa privata. Il sistema bancario non può continuare ad essere condizionato, nella sua azione, dal pericolo di una fuga di denaro. Non può essere anchilosato da un eccesso di regolamentazione, proveniente proprio da un’istituzione che ha posto la proporzionalità tra i suoi principii fondamentali. In qualche momento, abbiamo perfino avuto l’impressione che sia in atto una campagna preordinata contro le banche della nostra categoria. C’è una Popolare che non ha applicato l’anatocismo ancora anni prima della normativa speciale in argomento, che non ha venduto derivati, che non ha fatto alcun subprime (neppure all’italiana), che non ha emesso una subordinata, che ha un Tier 1 di più del 18%, ma non si riesce a farlo scrivere da un giornale che sia uno. Non per dire che altri comportamenti siano scorretti perché – anzi – di per sé non lo sono, ma semplicemente perché, per i giornali e viste le loro campagne, dovrebbe essere una notizia. Non c’è però niente da fare. Ma prendersela con le banche non conviene a nessuno meno che a chi pensa di poter ridurre il mercato del credito ad un insieme di pochi soggetti, che facilmente poi farebbero – di fatto – valere la propria posizione oligopolista.

Le banche di territorio per questo disegno, sono il primo ingombro. Per questo sono osteggiate. Per questo, si generalizzano irresponsabilmente casi singoli. Oltretutto, queste banche fanno gola perché sono le più patrimonializzate. Fare i banchieri è sempre stato difficile, ma oggi è difficile anche solo farlo serenamente: in caso di crisi aziendali nei settori più vari, Prefetti e sindacati vengono a chiedere che si finanzino le imprese interessate, che si evitino i licenziamenti. Se non lo si fa, si è messi alla gogna; ma se lo si fa, si è facilmente messi sotto processo penale per abuso di credito. Un esempio, ma significativo.

L’Europa dei burocrati, ci mette pesantemente del suo. La normativa sulla risoluzione delle crisi bancarie è stata dal Parlamento recepita con scarsa  attenzione, contro di essa si esprime oggi anche il Fondo monetario internazionale. L’opinione pubblica, invece, è stata inondata – spesso, da fonti direttamente o indirettamente interessate – di dubbi, di remote eventualità, di possibili pericoli. Le banche che vanno bene sono state gravate del carico di provvedere pro quota a mettere in sicurezza alcune banche da tempo commissariate (tutte Casse di risparmio o ex Casse di risparmio, ad eccezione di una sola Popolare: e correggere informazioni errate al proposito, è stata un’impresa). Le banche questo hanno fatto, ma non nel modo in cui avevano pensato di farlo, ma nel modo in cui si è loro imposto di farlo (col risultato – ad esempio – di creare il problema delle obbligazioni subordinate, che col primo modo di procedere non si sarebbe posto).

Il caso della banca estera che pur di ritirarsi dall’Italia ha corrisposto (non, percepito) 250 milioni circa a chi ha rilevato i suoi sportelli, dovrebbe far pensare. Dovrebbe indurre a qualche considerazione – nuovamente – anche gli imprenditori che credono ancora in un sistema libero di economia (e non solo nei sussidi di uno stato onnivoro). Ma chiediamoci anche chi può continuare ad operare serenamente sul mercato del credito nella situazione attuale, in un Paese nel quale lo stato, nel silenzio assordante di ogni altra istituzione, lascia spendere il proprio nome – come garante – in una megalattica operazione in favore di chi raccoglie, ma non fa credito.

Siamo in una situazione, cioè, in cui lo stato parteggia per una parte in concorrenza con altre parti.

Il credito popolare e cooperativo è oggi una realtà in continua espansione, nuovi Paesi si aprono ad esso, specie nella fase di transizione da esperienze statalistiche. Nel mondo, sono attivi oltre duecentomila istituti, con quattrocentotrentacinque milioni di soci, settecento milioni di clienti, novemila miliardi di euro di raccolta e settemila di impieghi. Se la diffusione della cooperazione bancaria è, per la sua stessa storia, ben radicata nel Nord America e in Europa, essa è in forte espansione in Africa e in Sud America (da ultimo, è il gruppo brasiliano Confebras che ha stabilito con Assopopolari un profondo rapporto di partnership). Crescenti manifestazioni di interesse provengono anche dalla Cina, ove le banche cooperative hanno una radicata tradizione. E’ ovunque apprezzato il fatto che le banche locali non vanno e vengono dal loro territorio, sono anzi inscindibilmente legate (smitianamente; non per beneficenza, ma nel loro stesso interesse) al progresso, e allo sviluppo, del territorio in cui sono insediate, con quote di mercato che ne fanno – come bene è stato detto – dei “piccoli giganti”. Le banche locali investono nel loro territorio quanto in esso raccolgono. Esaltano il carattere di mutualità che ci caratterizza (la nostra forza: il rapporto socio-cliente) sotto un particolare aspetto, quello della solidarietà esterna, della “solidarietà di territorio”, che non è chiusura al nuovo, ma sinergia. Hanno – ciò che molti osservatori spesso trascurano – nel loro stesso modo di “fare banca” l’economia di scala più ragguardevole. Il monitoraggio dei clienti è esercitato dallo stesso localismo e da un controllo sociale che va ben al di là del contratto. La motivazione del personale, il circuito virtuoso coi soci, la consapevolezza (e maturità) delle istituzioni responsabili e delle associazioni di categoria lungimiranti nella difesa del territorio da scorrerie e saccheggi, fanno il resto. Le banche locali, per questo sono contraddistinte in assoluto dai migliori indici di redditività e da una migliore qualità del credito.

Le banche locali sono state in altri periodi storici assediate, indotte a scelte che non sono oggi di certo una novità (nel 1927, un provvedimento governativo dispose che quelle con depositi inferiori a cinque milioni dovessero fondersi con altre o essere poste in liquidazione, mentre quelle con depositi inferiori a dieci milioni avrebbero potuto essere costrette a confluire in qualche altra banca della categoria). Oggi, in particolare, il nostro Paese sembra essere tenuto in scacco da quello che, col Presidente Fratta Pasini, abbiamo chiamato “il vento del bonapartismo economico”, e questo nonostante l’esperienza degli Stati Uniti, e recenti vicende di quel Paese, dimostrino che il gigantismo bancario non è la panacea di tutti i mali, non rende necessariamente il sistema più stabile, spesse volte non contribuisce neppure a una sua maggiore efficienza, spesso rivelandosi come una transitoria illusione ottica. Stefano Zamagni ha ipotizzato che esista un preciso disegno che punta ad eliminare le banche del territorio, non in maniera diretta, ma esasperando il rispetto di regole troppo pesanti. In un mondo che pare vieppiù dominato dalla grande finanza e dalla tecnocrazia, in un mondo nel quale – come ha scritto Riccardi Cappellin – l’eccessiva concentrazione del sistema bancario ha portato a meccanismi collusivi tra le diverse banche e tra banche e grandi gruppi industriali e finanziari (meccanismi che sono alla base della crisi del 2007), Marco Vitale è giunto a chiedersi: “Le banche devono diventare sempre omogenee, sempre più burocratiche, sempre più rigide, sempre più anonime e staccate dal territorio e da simili sentimentalismi, senza anima, identità e cultura?” Noi crediamo di no, crediamo che solo il mercato debba operare. La nostra Costituzione è un grande baluardo contro ogni forzatura pretesemente sovraordinata. E’ Giovanni Ferri che ha accertato – come riportato nel libro che presentiamo oggi, appena citato – che le Popolari sono caratterizzate dall’adozione di strategie di più lungo periodo e da una minore volatilità dei profitti, così come hanno mantenuto la missione iniziale di banche della comunità locale. E sempre nello stesso volume, Giuseppe De Lucia Lumeno – sottolineato il ruolo anticiclico delle banche locali – ha scritto: “Proprio la crisi ha reso più evidente le necessità della presenza a livello locale di banche che operano per favorire lo sviluppo del tessuto produttivo e la coesione sociale tra gli individui, elementi indispensabili nei quali una comunità trova quelle motivazioni e quei valori aggregativi che ne favoriscono prosperità e benessere”.

Questi valori, diversi da quelli che hanno dominato gli anni ’80 e ’90, stanno tornando, oggi, ad essere fondamentali. Anche in Italia si parla sempre più frequentemente di “Nuova Economia“, di un'economia dei beni comuni che presuppone l’interazione tra tutti gli attori economici secondo meccanismi di diritto privato. La presenza e la prossimità tornano ad essere caratteristiche centrali e il sostegno alle famiglie, alle comunità locali e alle singole Piccole e Medie Imprese fanno della Cooperazione Bancaria un soggetto essenziale della ripresa economica, in tutto il mondo. La tenuta in questi anni di crisi, la capacità di essere presenti capillarmente sui territori, di declinarsi nelle forme più compatibili alle diverse realtà, rappresentano una risorsa per il futuro. Le Banche Popolari, interne a (e protagoniste di) questo dibattito internazionale, sono a pieno titolo proiettate nel futuro, proprio perché, anche grazie alla capacità di essere presenze di prossimità, sono pienamente rispondenti alle caratteristiche che saranno necessarie nella nuova fase di economia condivisa che ci aspetta, un’economia libera da condizionamenti statalistici, che invano ormai si oppongono all’avvento di una società nuova, che superi l’invasività dello Stato moderno. Noi saremo, ancora una volta, anche con queste avanguardie.

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