«Questo racconto contiene solo una parte delle esperienze vissute durante e dopo la drammatica ritirata in Russia. Ho infatti volutamente trascurato quegli episodi che, per la loro enorme gravità, potrebbero anche non essere creduti. Io sono stato uno dei pochissimi fortunati, perché, malgrado le molteplici menomazioni fisiche riportate in quellinferno di gelo, ho avuto la possibilità di tornare nella mia terra che amo tanto. Tuttora, oltre alle ferite fisiche ancor oggi molto evidenti, porto in me una più grave ferita psichica, così che spesso la mia mente, nel cuore della notte, corre a quella valle di Arbusov e, malgrado siano passati tanti anni, mi sembra di sentire e di riconoscere i lamenti di disperazione dei miei amici che stavano morendo. Rivivo quei drammatici momenti e tutto quel percorso infernale tra il freddo, la fame e le ferite; mi torna alla mente ogni più piccolo particolare e non riesco più a liberarmi da quei ricordi che mi tormentano. Così la notte trascorre lentamente e al mattino mi ritrovo più stanco di quando mi sono coricato».
«Io, lo ripeto, ho avuto molta fortuna, perché migliaia e migliaia di giovani di ventanni o poco più, miei commilitoni, dopo aver sopportato quella via Crucis, sono morti fra tormenti indicibili».
Nando Rabaglia ha appena terminato lappassionata lettura di ampi stralci del Diario di prigionia di Pietro Amani (piacentino scampato ai Gulag oggi 96enne, unico reduce dellArmir tuttora vivente), presentato a Palazzo Galli della Banca di Piacenza (che ha stampato il Diario) in un Salone dei depositanti gremito. Lattore si è talmente immedesimato nel drammatico racconto, che con affettuoso slancio va verso Amani seduto in prima fila e gli stringe affettuosamente la mano. Lex fante dell82° Reggimento Fanteria della Divisione Torino si asciuga le lacrime e la commozione si avverte in tutti i presenti venuti ad assistere a quella che il moderatore Stefano Mensurati, giornalista Rai, ha definito «una manifestazione daffetto nei confronti di Pietro Amani, uomo di grande dignità che conserva i ricordi con serenità non serbando rancore. E invidiabile, leggendo il diario, vedere che non traspare mai odio, risentimento».
Avviando lincontro Mensurati, dicendosi meravigliato del grande affollamento della sala («a Roma per mettere insieme così tante persone si deve promettere come minimo un invito a cena o a teatro»), ha ricordato come lo scorso anno a Palazzo Galli fosse stata presentata la mostra sulla tragedia - sconosciuta e da alcuni dimenticata - degli italiani in Crimea, rassegna che ora sta girando in tutta Italia (dopo Ferrara, prossima tappa Vicenza). La colonia italiana di Kerch ha radici lontane. I genovesi vi si insediarono nel 1200, poi la migrazione verso la Crimea riprese agli inizi dellOttocento: arrivavano in gran parte dalla Puglia (pescatori, agricoltori, artigiani) e alla fine di quel secolo quella italiana era una comunità rispettata. Con lavvento del Comunismo (Anni 20 del Novecento) le cose mutarono tragicamente. Con la collettivizzazione furono requisiti tutti i beni e da una situazione di discreta agiatezza, gli italiani di Crimea piombarono nella miseria più nera, sorte comune anche con gli immigrati di altre nazionalità. «Ma i nostri - ha osservato Mensurati - avevano una colpa in più, quella di essere italiani, sospettati ingiustamente di fare la spia per i fascisti. Con le purghe staliniane vennero arrestati e torturati». Il 29 gennaio del 1942 un rastrellamento casa per casa come rappresaglia per lalleanza dellItalia con la Germania, portò alla cattura di oltre 1500 italiani di Crimea. Furono deportati a Karaganda, in Kazakistan, dove vissero la terribile esperienza del gulag e dove rimasero fino agli anni 50. «Il 90 per cento fu sterminato: 150 i sopravvissuti, 78 quelli che fecero ritorno nelle loro case», ha ricordato il giornalista Rai citando i dati forniti dal governo russo. Mensurati ha quindi spiegato come si è arrivati a scoprire lesistenza del reduce piacentino. «Stavo seguendo un progetto per conoscere il destino degli italiani di Crimea deportati nei gulag durante la seconda guerra mondiale. Una indagine finanziata da Assopopolari - che qui ringrazio, in particolare il suo presidente Corrado Sforza Fogliani - che ha portato in Kazakistan tre ricercatori. E qui che ci siamo accorti che nel gulag 99 di Karaganda (grande come la Lombardia e il Piemonte messe assieme, ndr) erano stati rinchiusi anche 940 soldati italiani dellArmir». Il dossier - a cui ha contribuito anche Giulia Giacchetti Boico, presidente dellassociazione Cerkio (Comunità degli emigrati nella regione Krimea-Italiani di origine) - si è arricchito con le storie dei militari italiani, ad intrecciarsi con quelle altrettanto drammatiche degli italiani di Crimea. «La svolta - ha proseguito Stefano Mensurati - è avvenuta l11 settembre del 2015, quando la Boico è riuscita a incontrare Putin e Berlusconi. Il presidente russo ha chiesto che cosa avete bisogno. La presidente di Cerkio ha risposto che erano 70 anni che la comunità italiana in Crimea attendeva le fosse riconosciuto lo stato di etnia perseguitata, così come era avvenuto per altre comunità. Ebbene, di lì a poco, la legge fu emendata e venne aggiunta letnia italiana con due risultati raggiunti: il ripristino della verità storica e la possibilità di accedere agli indennizzi per le proprietà perdute durante le deportazioni. Per ottenere il risarcimento erano necessari due documenti; il certificato di proprietà delle abitazioni e il certificato di deportazione. Ed è qui che assume rilievo lindagine finanziata da Assopopolari, che ha già portato alla luce un primo elenco di 1002 prigionieri». Lanno scorso è stato trovato, tra i prigionieri dellArmir, Pietro Amani: «Persona lucidissima - ha affermato Mensurati - che ci ha raccontato la sua storia rivelandoci di aver scritto anche un diario che ora la Banca di Piacenza ha deciso di ripubblicare, una testimonianza impressionante di quello che hanno passato i militari italiani in Unione Sovietica».
Al termine della lettura di alcuni passi del diario da parte dellattore Nando Rabaglia, Stefano Mensurati ha consegnato ad Alberta Giussani (che vive a Erba) la riproduzione della scheda di prigionia dello zio Mario Giussani, militare italiano morto nel gulag 99 (tutte le 940 schede dei prigionieri dellArmir sono state riprodotte) di cui i familiari non avevano avuto più notizie.
«Un esempio dellimportanza della nostra inchiesta - ha sottolineato il giornalista Rai - se si pensa che nessuno prima di noi si era fatto vivo dallItalia per conoscere il destino dei nostri militari, nonostante i documenti siano stati desecretati da 25 anni».
Il moderatore ha quindi dato la parola a Francesco Bigazzi, che ha passato oltre 25 anni in Unione Sovietica, autore del saggio Il primo Gulag: le isole Solovki e Dario Fertilio, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, amico dello scrittore russo dissidente Vladimir Bukovsky. In colloquio fra di loro hanno spiegato ai presenti come si viveva nei gulag: «Da schiavi, inghiottiti a lavorare in miniera o nelle fabbriche; sfruttati come manovalanza a costo zero». Bigazzi ha voluto commentare alcuni dati sulla percentuale di sopravvissuti tra i prigionieri di guerra: 99 per cento per i reduci dallInghilterra; 98 dalla Grecia, 94,4 dalla Germania; 14 per cento dalla Russia. «Questo dato - ha detto Bigazzi - spiega la drammaticità della storia di Pietro Amani». Una storia che ha molto colpito anche Dario Fortilio: «Il racconto del trasferimento a Karaganda - ha osservato il giornalista - mi ha fatto venire in mente la storia di Margarete Buber-Neumann, prigioniera sia dei campi di rieducazione in Siberia, sia del lager nazista di Ravensbrück. Fu una delle poche che potè paragonare lager e gulag (da leggere il suo libro Prigioniera di Stalin e Hitler, ndr)». La distinzione essenziale? Nei gulag si praticava lo sterminio estensivo, nei lager quello intensivo, industriale.
Stefano Mensurati ha proiettato due filmati depoca sugli italiani nei gulag, assolutamente inediti per lItalia. Nel primo si vedono soldati italiani in Kazakistan che marciano in mezzo ai cadaveri dei propri commilitoni; percorrevano 20 chilometri nella neve per raggiungere le miniere di carbone. Qui il pericolo era rappresentato dal grisou, un gas letale che può formarsi allinterno delle miniere stesse. «In Colombia - ha raccontato Bigazzi - come cavie per accertare, quando scendevano sotto terra, la presenza del gas usavano gli uccellini; al campo 99 le cavie erano i prigionieri italiani». Nel secondo filmato si vedono invece i prigionieri italiani radunati dopo 12-15 ore di lavori forzati, costretti ad assistere a vere e proprie lezioni dindottrinamento al regime sovietico. Al termine delle lezioni facevano firmare documenti contro la guerra e contro il fascismo.
Il presidente della Banca di Piacenza, Giuseppe Nenna, ha poi consegnato a Pietro Amani un ricordo della serata «segno di simpatia, amicizia e stima»; un dono è stato fatto anche ai relatori.
Stefano Mensurati ha in chiusura chiamato al tavolo il presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza, Corrado Sforza Fogliani. «Ringrazio tutte le autorità e tutti i presenti e in particolare ringrazio Pietro Amani - ha affermato - che ci ha fatto un grande regalo scrivendo una parte di storia che solitamente non si sente mai raccontare. Su questi temi si sono dette mezze verità, che come tali - sono falsità. Questi sono tempi nei quali si comincia a conoscere tutta la verità grazie anche a persone come Mensurati, verità taciute da cattivi maestri».
«Assopopolari - ha concluso Sforza Fogliani - ha pensato fosse giusto scoprire queste verità e il diario di Amani (salutato da un lungo applauso finale, ndr) è un altro contributo a ristabilire la verità».
Emanuele Galba