LA VICENDA DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PIACENZA IN UN LIBRO ORA USCITO La bufala dei patti parasociali (e del futuro grandioso…)

LA VICENDA DELLA CASSA DI RISPARMIO DI PIACENZA IN UN LIBRO ORA USCITO
La bufala dei patti parasociali (e del futuro grandioso…)

LA VICENDA DELLA CASSA DI RISPARMIO

C’era una volta la Cassa di risparmio di Piacenza. Che poi divenne di Piacenza e Vigevano. Poi Cariparma, poi Intesa e Intesa/San Paolo, poi ancora Crédit Agricole. Per oggi, siamo fermi qua. L ’idrovora dal canto suo continua a fare il suo mestiere. La Cassa di risparmio di Piacenza (quando assorbì quella di Vigevano, sotto questo punto di vista  non cambiò niente) s’è sempre divisa il mercato del credito nella nostra terra con la Banca di Piacenza, e fino ad allora contribuì – in modo determinante – a trattenere a Piacenza le risorse prodotte a Piacenza. Poi, nelle diverse denominazioni assunte, ha sempre condiviso nello stesso modo il controllo del territorio (le due, le altre banche –  che si dividono tutte una minima quota di mercato – non le sentono neppure). Solo che i risparmi dei piacentini – sottoforma di utili prodotti – hanno continuato ad andarsene (prima a Parma, ora in Francia). E Piacenza, negli anni, non è certo rifiorita. Anzi…, anche prima dei giorni nostri.
Sulla Cassa di risparmio di Piacenza (il cui contributo alla crescita di Piacenza è noto a tutti: come per la Banca di Piacenza, rimasta però piacentina) è ora uscita – in autoedizione – un’aurea pubblicazione, a cura di Eduardo Paradiso (con approfonditi saggi di altri), di cui riproduciamo la copertina. La domanda alla quale la ricerca (documentata) vuole rispondere è questa: perché la fusione della  nostra Cassa? E, in secondo luogo: perché con la Cassa di Parma?
Prima di tutto i fatti. La Cassa di risparmio di Parma e Piacenza nacque il 1° marzo 1993. La fusione con Parma fu un’improvvisata, annunciata e portata a termine in 90 giorni. Fino ad allora s’era sempre (e solo) parlato di una entità regionale (il Caer), nella quale peraltro  Parma non ha mai pensato minimamente di entrare. Parma non ha mai accettato – infatti – ruoli da comprimaria, e questo – una volta di più – è stato il suo grande vantaggio, in tutti i settori. Anche questa volta, il suo orgoglio è stato premiato: ad un certo punto la nostra Cassa si rivolse a quella di Parma per una fusione a due. Parma, però, ce  la fece pagare: il concambio delle azioni (su perizia di due esperti nominati dal Tribunale di Parma) fu deciso – ed accettato all’unanimità – in modo assolutamente disequilibrato: si accettò, in pratica, la valutazione che la Cassa di Piacenza valesse meno della metà di quella di Parma (che così si prese il 62,01 per cento del capitale contro il  nostro 37,99 per cento). A Piacenza si disse che, a tutelarci, c’erano i “patti parasociali” e che il nostro futuro (al futuro, appunto…) sarebbe stato “grandioso”. Come sono andate le cose sotto questo punto di vista, lo sappiamo tutti: ora, il Consiglio è infarcito di francesi. Quanto ai patti (che però addormentarono i piacentini, diedero voce ai  trombettieri, non si sa se più minchioni o più – in un modo o nell’altro – “interessati” per non dire prezzolati), nessuno li vide, nessuno li lesse mai, tutti ne parlarono solo (la stampa locale è a disposizione). Paradiso, in proposito, ha le idee chiare, e nette: “Si può paragonare l’intera vicenda alle più scontate commedie degli equivoci”, “Mai  bufala fu meglio confezionata”, “Una vera e autentica fake news, come si dice oggi”.

FUTURO DI PC: né comprimari, né zecche di altri
Quindi, perché la Cassa si fuse? Perché – si capisce, ma il libro (di tifosi e – appassionati – funzionari e dirigenti della Cassa) non lo sostiene – la Cassa si era lanciata in operazioni ad alto rischio (futures) per entrare da prima della classe nell’ipotizzato Gruppo regionale di Casse, ma si presentò poi a Parma con una perdita su titoli di 64 miliardi e un’anticipazione di cassa di 1.000 miliardi da parte della Banca d’Italia. Assenza totale, poi, di una classe dirigente, nessun dibattito in città (come oggi), con la classe politica – a livello, o al di sotto, del  minimo sindacale – a stendere tappetini all’operazione, sempre nell’illusione (come oggi, ancora) che, ad approvare, qualche briciola cadesse dalla tavola. Mostrarono vista lunga e comprensione di come sarebbero andate le cose solo Francesconi, Gallini e Girometta. Un politico (dc) giunse a dire: “Spero che questa operazione si compia  presto, temo infatti che Parma ci ripensi visti i contenuti ed i riflessi positivi che questa scelta avrà per Piacenza”. Il tutto nel convincimento (vero o finto) di quel “futuro grandioso” che la fusione ci avrebbe assicurato (sempre il futuro, ovviamente) secondo i propalatori. Infatti, “vulgus vult decepi et decipiatur igitur”. Questa la conclusione che  traggo io, diversa da quella che il libro in rassegna invece sposa: che è che la Cassa si fuse non per la situazione di bilancio in cui venne a trovarsi, ma perché rientrata in un più ampio gioco politico (si richiamano in particolare i rapporti Mazzocchi-Andreatta), che mirava al controllo dell’economia attraverso il controllo delle banche e del credito  in particolare.
Ma perché con Parma? Sempre – a nostro avviso – per lo stesso motivo: perché Parma non aveva accettato alcun ruolo comprimario (salvo poi il segreto disegno –come aveva fatto Piacenza – di emergere coi futures), era libera, poteva decidere – e decise – in pochi giorni. Questo, nel 1993: niente comprimari, meglio primi in  una piccola area che secondi (o ultimi) in un’area vasta (senza nessun riferimento all’oggi). E niente sperare, (come per PR capitale) di essere le zecche di altri. Chi, da noi, non ha ancora compreso che ai comprimari (e alle zecche) non resta nulla di sostanziale (in termini di reale crescita del territorio), che resta l’effimero di una giornata o di  mezza giornata di gloria e basta, chi non capisce neppur oggi questa cosa, è indietro – anche rispetto alla Parma odierna – di più di un quarto di secolo. Almeno.
 

c.s.f.